Una persona su venti, nel mondo, potrebbe vivere un’esperienza di pre-morte. Una su cinque racconta esperienze spirituali dopo essere uscita dal coma. Questi dati provengono da una rassegna della neuroscienziata belga Charlotte Martial. L’autrice sottolinea che la linea tra le “vere” esperienze di pre-morte (cioè in presenza di un reale rischio per la vita) e quelle simili si sta facendo sempre più sottile. È quindi necessario considerare un ampio ventaglio di fattori, non solo i parametri medici.
Martial analizza il modello NEPTUNE. Secondo questo schema, l’esperienza di pre-morte nasce da una complessa catena di processi neurofisiologici e chimici. Quando il cervello subisce una carenza di ossigeno e un calo della pressione sanguigna, si attiva un’intensa attività dei neurotrasmettitori. Dopamina e serotonina sembrano generare le visioni intense; glutammato, colina e noradrenalina favoriscono la memorizzazione dell’esperienza; serotonina, endorfine e l’attività gabaergica inducono una sensazione di pace. Alcuni studi hanno inoltre registrato improvvisi picchi di onde gamma nel cervello morente, che potrebbero aprire un breve “varco” per queste esperienze.
Si tratterebbe di un meccanismo di difesa evolutivo. Aiuta la psiche a sopportare lo stress estremo provocato dalla vicinanza della morte. Questo tipo di esperienza può modificare profondamente la visione del mondo, sia in senso positivo (riducendo la paura della morte), sia in senso negativo (con difficoltà a comprendere e accettare quanto vissuto). Anche se esiste una scala per valutare i contenuti dell’esperienza, punteggi bassi non la rendono meno significativa.
Va ricordato che l’esperienza di pre-morte può rientrare negli stati di fase. Questo legame è stato dimostrato dai partecipanti all’esperimento REMspace, che durante sogni lucidi hanno vissuto l’esperienza del volo nel tunnel verso la luce.
L’articolo è stato pubblicato nell’aprile 2025 sul sito dell’Università di Liegi.



